Saldamente radicato nella tradizione indiana, T.K.V. Desikachar ha saputo rendere accessibile e fruibile alla sensibilità occidentale moderna l’antica ‘scienza’ dello yoga. Ha ricevuto il sapere vasto, ricco e incontestabilmente pratico da T. Krishnamacharya, suo padre e maestro, yoghi leggendario e infaticabile esploratore della saggezza millenaria dell’India. Desikachar ha raccolto le conoscenze e le competenze maturate da suo padre tra le grotte himalayane nel cuore del Tibet, le più prestigiose università di pensiero indiano e la sua stessa esperienza di yoghi, insegnante e guaritore. Le ha assimilate e approfondite in decenni di studio e di pratica per divulgarle con pragmatismo e semplicità in ogni continente.
Promulgatore di un modo d'intendere e praticare lo yoga da lui definito viniyoga, Desikachar ha sottolineato la necessità di una pedagogia dello yoga che non può prescindere da un adattamento attento alle caratteristiche psicofisiche individuali, ai bisogni reali e al contesto sociale e culturale di chi lo pratica.
Ingegnere di formazione, ha promosso la diffusione della filosofia, della pratica dello yoga e della sue diverse applicazioni diffondendo parallelamente una cultura dell’insegnamento e della cura che riconosce il ruolo centrale della relazione umana come motore di cambiamento e di crescita.
In onore di suo padre, nel 1976, ha fondato il Krishnamacharya Yoga Mandiram (Chennai, India), un Istituto no-profit, riconosciuto dal Ministero della Sanità indiano, che promuove l'insegnamento dello yoga con particolare attenzione all'ambito terapeutico e sociale. Il Krishnamacharya Yoga Mandiram organizza inoltre programmi di studio di ogni livello che attirano ogni anno centinaia di cultori, studenti e insegnati di yoga da tutto il mondo.
“Nelle prime ore del mattino dell'8 agosto 2016, Sri T.K.V. Desikachar, figlio del grande yogi Sri Tirumalai Krishnamacharya, moriva a Chennai, nel Tamil Nadu, una provincia dell'India meridionale.
Gli autori delle testimonianze qui raccolte sono stati i suoi allievi diretti per molti anni. Alcuni di loro, indiani, hanno insegnato al suo fianco presso il Krishnamacharya Yoga Mandiram per 20, 30 o 40 anni. Altri, europei, fanno parte dei "pionieri" che a partire dagli anni '60 e '70 si recarono a Madras, a volte anche ogni anno, per studiare con lui. Alcuni di loro avevano inizialmente ricevuto degli insegnamenti da Krishnamurti, a Londra o in Svizzera, e a partire da lì si recarono a Madras, col desiderio di incontrare questo giovane insegnante, con il quale Krishnamurti stesso studiava yoga.
Questo libro porta testimonianza tanto di una cinquantina d'anni d'insegnamenti ricevuti, quanto dell'amicizia.
Al di là del contenuto dell'insegnamento, le testimonianze qui raccolte riportano una pagina nella storia della trasmissione che egli "ha scritto", a modo suo, attraverso l'attenzione e l'amicizia specifica e profonda che ha dedicato a ciascuno. Quindi a rigor di termini non c'è eredità, ma soltanto delle fedeltà che, attraverso l'esperienza, la riflessione, la ricerca continua e la condivisione, continuano a raccontare la storia sempre rivitalizzata di quest'arte per la vita che è lo yoga”.
Béatrice Viard (curatrice, editrice)
L'incontro con Desikachar
Il mio aereo atterrò a Chennai in una notte d'autunno del 1986, sotto la pioggia battente del monsone.
Allora non sapevo nulla dell'insegnamento viniyoga e di chi già in quegli anni diffondeva e promuoveva l'insegnamento di Krishnamcharya in Occidente: praticavo yoga da un paio d'anni. Arrivai lì per avere letto un libro che raccoglieva le conferenze sulla teoria e sulla pratica dello yoga che T.K.V. Desikachar aveva tenuto presso l'Università di Colgate negli anni '70. Nella sua versione italiana, quel libro s'intitolava “Yoga e religiosità” e mi aveva folgorata per la sua ricchezza, semplicità e chiarezza.
Era già buio quando salii per la prima volta i gradini della piccola veranda del Mandiram.
Dopo essermi presentata alla segretaria e dopo una breve attesa, mi venne incontro un uomo sulla cinquantina che teneva per mano una bambina dalle lunghe trecce ripiegate: era Desikachar, con sua figlia Mekhala. Siccome gli era stata riferita la mia nazionalità, pensò di salutarmi in italiano. Quello che ne uscì, insieme al suo sorriso aperto, fu un saluto italo-spagnolo: “Buona sera, señorita!”
Quell'anno non studiai con Desikachar, ma con alcuni insegnanti del Mandiram. Ero affascinata dagli insegnamenti che ricevevo e avevo ancora tutto da imparare.
Solo la pratica di âsana mi lasciava perplessa: ero stata iniziata allo yoga secondo il “metodo Iyengar” e mi era stato insegnato a tenere le posizioni in statica per lungo tempo. In più, io, di mia iniziativa, incrementavo la dose. Pensavo che la pratica di âsana seguisse il principio “Più-ci-stai-e-meglio-fa” e nella quiete della mia stanza, nella mia pratica ignorante, mi capitava di stare anche per tre quarti d'ora in sarvângâsana. Nonostante che al Mandiram questa mia teoria fosse stata chiaramente smentita, io consideravo la pratica che mi era stata insegnata a Chennai troppo blanda per me, e nonostante le raccomandazioni più volte ricevute (“prima di tutto non nuocere!”) al mio ritorno dall'India decisi che gli âsana avrei continuato a praticarli come prima. Però dopo circa un mese, una mattina, dopo avere assunto prasârita pâda uttânâsana e averlo mantenuto per un bel po'....provai a rialzarmi: la mia schiena non rispose, sentii solo un dolore lancinante, che lasciò spiacevolissime tracce per settimane.
Prima di ripartire da Chennai, durante un incontro di saluto, Desikachar mi aveva detto: “Se vuoi veramente imparare lo yoga, inizia a insegnarlo!” Poi, accompagnandomi fino al cancello, mi aveva lasciato con un “God bless you!”, che avrei ricevuto ancora così tante volte, con piacere e riconoscenza. Benedizione che si estese sicuramente anche ai miei primi allievi, perché una volta tornata in Italia misi subito in pratica il suo suggerimento e, nonostante la pratica temeraria di allora, ebbi la fortuna di non creare danni.
Quella fu la prima delle infinite spinte a fare, a sperimentare, ad entrare nelle cose di cui Desikachar mi fece dono nel corso degli anni che seguirono. E con quella raccomandazione aveva introdotto alcuni temi che sarebbero stati ricorrenti nel suo insegnamento: “lo yoga è abilità nell'azione” e “la conoscenza procede dall'esperienza”. In effetti, fu proprio insegnando che iniziai a pormi domande, e penso che questo fosse l'obiettivo che Desikachar aveva in mente quando mi diede quel suggerimento.
Ritagli d'insegnamenti
Fu con Desikachar che iniziai a comprendere il valore delle domande, a vedere quanto interrogarsi ed esplorare fosse più utile, interessante e produttivo che ricercare risposte immediate. Scoprii presto che per lui le domande erano più interessanti delle risposte. Non soltanto Desikachar non dava risposte non richieste, ma stimolava a sostare nelle domande, a rimettere in discussione convinzioni non indagate, a ricercare e a trovare risposte dentro di sé. Desikachar era chiaro sul fatto che risposte facili e soluzioni preconfezionate avrebbero contribuito a bloccare l'apprendimento, a mantenere sulla superficie delle cose e a creare dipendenza. Nel rapporto che sviluppai con lui negli anni successivi, ho sempre sentito che non c'erano risposte definitive e univoche, verità che non potessero essere ri-esaminate. E questo non lo trovavo né comodo né rassicurante. A volte, lo trovai addirittura destabilizzante. E ci sono stati momenti in cui ho provato una sincera irritazione nei suoi confronti per questo, tanto che un giorno scioperai (ero ancora giovane!) e non mi recai da lui per la nostra lezione usuale. Ma il suo sguardo era rivolto verso un orizzonte più alto: Desikachar era più interessato alla mia maturazione, come persona e come insegnante, che a darmi le risposte che mi aspettavo da lui. Nella mia esperienza, Desikachar ha sempre stimolato un'attivazione in prima persona, ha sempre sostenuto l'apprendimento dall'errore, ha sempre incoraggiato l'apertura a nuove possibilità e alla creatività. E soprattutto ha sempre mirato all'autonomia dei suoi allievi.
Ovviamente, nel corso degli anni ho ricevuto molte nozioni e insegnamenti approfonditi. Ma quello che voglio sottolineare è che Desikachar era molto più interessato alla formazione che all'in-formazione, e che era ancora più interessato alla tras-formazione dei suoi allievi.
Prima di essere accompagnata nel vasto e interessante mondo dell'utilizzo dello yoga in ambito terapeutico e prima di addentrarmi nelle nozioni e nei concetti che lo sottendono, per un certo tempo feci un'esperienza particolare. Assistevo agli incontri individuali che Desikachar teneva la sera, nella sua capanna di foglie di banano, nel cortile del Mandiram. Lì, il mio maestro incontrava persone con problemi di salute di ogni sorta, che si rivolgevano a lui per ricevere un aiuto. Quasi sempre gli incontri si svolgevano in tamil. Io non conoscevo quella lingua e non possedevo ancora nozioni relative al modo di applicare lo yoga a persone con problemi di salute. Assistevo senza che mi venisse spiegato nulla, nemmeno ad incontri terminati. Già mentre entravano, Desikachar osservava attentamente le persone che riceveva. E io avevo incominciato a guardare i suoi occhi per vedere cosa guardava nella persona che stava entrando in modo da guardare quello che guardava lui. Assistendo a questi colloqui, cercavo di intuire: una parola in inglese qua e là, dei segni rivelatori nella persona, i diversi strumenti di osservazione e di diagnosi e poi ancora le pratiche di âsana che disegnava: da tutte queste cose ricavavo delle informazioni. Ma non abbastanza, e d'altra parte non era così importante.
Fondamentalmente, mi allenavo ad osservare e, soprattutto, m'impregnavo. M'impregnavo dell'attenzione del mio maestro, del suo rispetto, della sua accoglienza, della sua centratura, del suo essere alla mano, della cura che aveva per quelle persone. In un certo senso, mi “accendevo”, come nella bella metafora delle Upanishad, dove una torcia spenta si accende nel contatto con una torcia illuminata, semplicemente.
La vicinanza è la chiave della trasmissione dell'insegnamento, che non è il trasferimento di un sapere intellettuale, ma la trasmissione di un insegnamento vivo, e cioè il processo che rende possibile la crescita e la trasformazione positiva. Mi aprivo a quel tipo di relazione in cui Desikachar portava se stesso, con tutto quello che la vita, suo padre e la pratica di yoga avevano impresso in lui in termini di vissuti, presenza mentale, esperienza. Una relazione in cui Desikachar si sentiva responsabile, si prendeva cura senza per questo farsi carico, in cui faceva sentire al suo interlocutore tutta la sua disponibilità e il suo interesse sincero.
Queste sono parole sue: “Credo che la qualità umana che consiste nell’essere sensibili e interessati agli altri e nel provare empatia per i loro problemi sia molto importante. Per noi, come insegnanti di yoga, ciò che è fondamentale è la nostra volontà di capire, di comunicare e di relazionarci. In questo senso, il contributo che possiamo dare è senza limiti, perché non promettiamo a chi si rivolge a noi che cureremo infallibilmente il suo disturbo, né promettiamo a nessuno di farlo vivere per sempre. Gli assicuriamo soltanto che ci prenderemo cura di lui, e nel fare questo, non ci sono limiti”.
Ma tutto questo riguarda ciò che conobbi più tardi. Tornando al mio racconto, mi ripresentai per la seconda volta a Chennai un paio d'anni più tardi. Fu Menaka, la bella e simpatica moglie di Desikachar, a proseguire le lezioni sugli Yoga-Sûtra iniziate durante il viaggio precedente. Ogni tanto, Desikachar m'incontrava per approfondire i miei quesiti e un giorno si mise a sfogliare il libro di Taimni che portavo con me, alla ricerca di un aforisma su cui stavamo discutendo. Credo che il mio libro vissuto, pieno di sottolineature, annotazioni, riflessioni, foglietti e bigliettini lo colpì favorevolmente, perché il giorno dopo mi annunciò che dal quel momento lui sarebbe stato il mio maestro. Provai ovviamente molta felicità e gratitudine per quel dono inatteso.
Nel corso degli anni non mancò la fatica di tradurre e di rielaborare il suo insegnamento secondo la mia sensibilità occidentale. Non di rado, questo ci portò ad indagare e a discutere a lungo possibili significati dei sûtra di Patañjali, allo scopo di evidenziarne l'utilità per la vita quotidiana in occidente. Desikachar sapeva coniugare flessibilità, creatività e chiarezza e mi chiedo spesso quale altro maestro avrebbe avuto l'apertura mentale che lui dimostrò nell'accompagnarmi in questa esplorazione. Desikachar ebbe la capacità di essere contemporaneamente un ricercatore, un innovatore e un accurato custode della tradizione.
Il fulcro della mia esperienza
Quali sono i fattori generatori di una trasformazione positiva? Cosa determina il miglioramento della salute? Cosa aiuta le persone a crescere? Cosa sostiene lo sviluppo dei potenziali umani più autentici? Le risposte a queste domande, per Desikachar ruotavano intorno a due grandi perni: relazione e fiducia (una fiducia, ovviamente, accompagnata da sufficiente capacità di giudizio). Perché è la fiducia in noi stessi e negli altri che ci consente di agire, fare scelte, attuare progetti, superare ostacoli, avventurarci verso nuove mete o perseverare nel cammino che stiamo percorrendo. È sempre la fiducia che ci consente di dare senso alle nostre esperienze, piacevoli o spiacevoli che siano, di tirare fuori le nostre risorse, di non chiuderci agli eventi che non ci piacciono e di collaborare, quando necessario, con l'inevitabile. È ancora sempre la fiducia che ci consente di affidarci e di rilassarci.
Accanto al mio maestro, ho imparato che una buona parte dell'apprendimento dello yoga consiste nel coltivare la fiducia e la capacità di relazionarsi: due fattori spesso intimamente legati. La fiducia facilita buone relazioni e le relazioni autentiche nutrono la fiducia. Imparare ad insegnare è anche apprendere a trasmettere fiducia al proprio allievo. E poiché la fiducia la si impara da chi è fiducioso, l'allievo impara ad avere fiducia nelle sue risorse e nella vita stessa da qualcuno che gli accorda fino in fondo questa fiducia, da qualcuno che crede in lui. Questo è quello che ho sperimentato sulla mia pelle nella mia esperienza con il mio maestro.
Secondo la definizione che si trova nella Chândogya Upanishad, lo yoga è un processo che consiste nell’andare dove non si era ancora andati, nel raggiungere nuove mete, nell'esprimere i propri potenziali. Per superare i limiti di oggi, per sperimentarci in ciò che oggi non sappiamo fare (o crediamo di non saper fare) occorre che ci sia una certa fiducia di riuscire: da parte nostra, o perlomeno inizialmente, da parte di qualcun altro. Come in questo esempio, piccolo, ma emblematico.
Nell’estate del ‘91 ero in India per studio e un giorno Desikachar mi disse: “ Ti vorrei come traduttrice nelle prossime conferenze e nei prossimi seminari che terrò in Italia”.
Alzando le spalle e serrando le labbra in un'espressione dispiaciuta e impotente, gli risposi: “Non credo che questo sarà possibile”. Poi esagerando e sminuendomi un po' per cercare di cavarmi da quello che a botta calda mi sembrò un impiccio, continuai dicendo “conosco solo 100 parole d’inglese”.
“D'accordo – disse lui dopo un attimo di riflessione – userò solo quelle 100 parole”.
Non potei replicare.
La prima occasione fu una conferenza a Treviso, organizzata dal mio amico e collega Giandomenico Vincenzi. Lo stesso Giandomenico mi confessò più tardi che la scelta di Desikachar gli aveva procurato una certa preoccupazione e che non avrebbe scommesso un granché sulla mia performance. La conferenza procedette senza intoppi: la presenza fiduciosa del mio maestro mi sostenne, le parole italiane s'intercalarono fluidamente con le parole del mio maestro e il mio amico Giandomenico si rilassò. Da parte mia, divenni la traduttrice ufficiale di Desikachar in Italia.
Una delle numerose definizioni che Desikachar usava dare dello yoga suonava così: “Nell’universo tutto è collegato, c’è una relazione tra tutte le cose e lo yoga esiste per ricordarcelo. “Yoga” significa “relazione”, relazione con il nostro corpo, con noi stessi, con il mondo che ci circonda”.
Ai fini del cambiamento e della crescita, Desikachar non aveva dubbi sul grado di efficacia della relazione da una parte e della pratica di âsana dall'altra: attribuiva un valore massimo alla prima e un valore minimo alla seconda. E a me personalmente sembra abbastanza evidente che la pratica delle posture non sia assolutamente garanzia di cambiamento positivo, anche se rappresenta certamente un aiuto valido.
Nel campo della psicoterapia e di altre relazioni d'aiuto, come il counseling, troviamo piena conferma dell'importanza della relazione: in questo ambito si è ormai appurato che non esiste un approccio migliore o peggiore di un altro, un insieme di tecniche più efficaci o meno efficaci, perché una condizione essenziale nella riuscita di una psicoterapia o di un percorso di counseling è la relazione. Ciò che consente e tiene insieme il processo di cambiamento e di crescita è la relazione. Una buona relazione è terapeutica di per sé e porta la persona più vicina alle sue risorse. Il nocciolo della mia esperienza con Desikachar è stata questa. L'evoluzione, lo sviluppo delle nostre potenzialità possono avere luogo innanzitutto nel terreno fecondo del contatto umano autentico: nel rispetto reciproco, nella fiducia, nella qualità di presenza e nell'ascolto profondo. È questo l'elemento catalizzatore che rimuove gli ostacoli e aiuta le persone a trovare la strada per la loro guarigione e per la loro realizzazione, a trovare il loro compito nel mondo, ad esprimere la loro natura individuale.
Ciò che più mi affascinò del mio contatto con Desikachar fu fare esperienza di quanto la relazione umana può favorire l’evoluzione individuale. E fu grazie a questa esperienza per me così importante che nei primi anni del 2000 decisi di formarmi in counseling. Perché il counselor è per definizione un esperto dell’ascolto e della comunicazione, qualcuno che pone la qualità della relazione al centro del suo operato.
Nell’ambito della psicologia umanistica, lo psicologo americano Carl Rogers individuò tre qualità/abilità essenziali che il terapeuta o il counselor devono possedere per essere catalizzatori di una trasformazione positiva nell’altro: considerazione positiva, empatia e autenticità.
Queste tre caratteristiche possono essere descritte attraverso parole quali: rispetto e valorizzazione dell'altro, accettazione non giudicante, calore, ascolto profondo, interezza nella partecipazione, genuinità nell'interesse, sincera volontà di capire, consapevolezza di sé e dunque conoscenza di sé ed espressione genuina di sé. Tutti questi elementi sono catalizzatori potenti di una trasformazione positiva e ho avuto la fortuna di toccarli con mano nel mio rapporto con Desikachar.
Ovviamente, nel corso dei 20 anni in cui fui in contatto con lui, non mancarono piccoli screzi, incomprensioni, piccoli risentimenti da parte di entrambi. Né mancò il mio senso critico occidentale, nel bene e nel male. Ma tutto questo fece parte della costruzione di una relazione umana, appunto.
Ci fu però un anno in cui le cose andarono diversamente. Nel 2000 si verificò un “cortocircuito” tra Desikchar e i suoi allievi occidentali, ci fu un momento di conflitto e incomprensione. E lui con molti di noi fu tutt'altro che tenero. Per quanto mi riguarda quell'evento fu un fulmine a ciel sereno. Non voglio entrare nel merito delle sue ragioni, che in parte ho capito e in parte no. Rimane il fatto che quella “nuova versione” del mio maestro mi era del tutto sconosciuta fino a qual momento: lo avevo visto essere duro con altri allievi, ma non lo era mai stato con me. Fu un'esperienza traumatica e provai molta rabbia nei suoi confronti. Non credo che il suo atteggiamento avesse uno scopo educativo preciso. Credo piuttosto che in quel momento lui stesse riesaminando il senso del suo insegnamento in occidente e che contemporaneamente stesse vivendo un periodo molto difficile legato a vicissitudini della sua famiglia: me ne parlò lui stesso, molto tempo dopo quella tempesta. In quelle condizioni, una serie di delusioni grandi e piccole e malcontenti legati a modi di recepire (o non recepire) il suo insegnamento da parte di alcuni suoi allievi occidentali, furono le scintille che fecero divampare l'incendio.
Lì conobbi la durezza di cui Desikachar era capace, vidi la sua rabbia e la sua incapacità di riconoscere di essere arrabbiato, vidi le sue azioni trasformarsi in reazioni, vidi la delusione delle sue aspettative e la sua frustrazione, vidi la sua mancanza di obiettività, vidi vacillare la consapevolezza di quello che stava facendo: conobbi l'altra faccia della sua umanità. Che, certo, mi ferì, ma che mi aiutò, dopo un periodo di metabolizzazione a vedere e ad apprezzare il mio maestro come un uomo intero.
Dopo quell'evento mi presi un periodo di distanza. Per quattro anni non mi recai più a Chennai. Quel periodo di metabolizzazione mi aiutò contemporaneamente a connettermi più profondamente con le mie radici e con la mia identità occidentale. Fu in quel periodo che mi accostai alla psicologia occidentale, che iniziai la mia formazione, che durò cinque anni e che sfociò nella mia attività di counseling.
In quel periodo sentii con sempre maggiore chiarezza che quell'evento non aveva cancellato nulla di tutto quello che c'era stato prima. Si era dolorosamente rotta una linea di continuità, ma sentii fino in fondo che l'uomo con i suoi limiti non poteva cancellare il maestro, perché il maestro era dentro a quell'uomo. E soprattutto cominciai a sentire che oramai il dono del mio maestro lo portavo dentro di me.
Dopo quel periodo, c'incontrammo ancora. E non dimenticherò mai la tenerezza e il calore che dimostrò nel fare ammenda, nel corso del primo dei miei viaggi successivi. In quegli incontri, sentii che non mancava una sola briciola della stima e dell'affetto che nutrivo per lui. Semmai, successe il contrario. Desikachar non mi aveva delusa, sentii la nostra relazione ancora più forte, e la mia stima e il mio affetto erano, a quel punto, per quell'uomo intero.
Poi i miei nuovi studi mi tennero lontana da Chennai per altri anni. In quegli anni lo sentii sempre vicino. Quando, alcuni anni fa sentii il desiderio di ricontattarlo per riprendere il mio studio con lui – che, certo, non finisce mai - seppi che era tardi: lui era già malato.
Sono molti i testi e gli aspetti dello yoga che avrei potuto ancora studiare con lui e che non ho potuto approfondire, ma non ho rimpianti, perché sento che l'essenziale è il legame che c'è stato, un legame che mi ha resa migliore: più consapevole, più forte e con maggiori competenze per la vita. E gli sono profondamente grata per questo.
Il segno che resta
Che cosa rimane?
Rimane la vastità dell'insegnamento dello yoga che Desikachar mi ha trasmesso. Un insegnamento che io stessa, per quanto sono stata capace di fare, ho contribuito e contribuisco a trasmettere, nel mio piccolo, insieme ai tanti suoi allievi che hanno concorso a portare in occidente il vento dell'insegnamento di suo padre: un insegnamento che lui per primo ha saputo rendere accessibile e fruibile a milioni di persone al di fuori dei confini dall'India.
Rimane il sapore dei nostri incontri individuali, che tanto spesso hanno toccato le corde più profonde del nostro essere umani, rimangono l'ascolto attento che il mio maestro mi ha dedicato, l'intimità e la vicinanza che mi ha voluto regalare.
Rimangono l'umanità e la saggezza con le quali ha saputo colmare i miei vuoti.
Rimane il segno indelebile del rispetto, dell'affetto, della cura, dell'interesse, della gratitudine che per tanti anni hanno benedetto i nostri incontri e le nostre lezioni.
Rimane nelle mie cellule la fiducia che il mio maestro mi hai trasmesso, credendo in me e incitandomi ad andare avanti. Qualcosa di vivo: non parole, non idee che si spengono nell'etere o nella dimenticanza, o che muoiono su un pezzo di carta, ma una forza vitale che mi nutre e che resta per sempre. Ed è questo che a mia volta intendo trasmettere.
Lucia Almini