La pratica degli yama e la T-shirt

La pratica degli yama oggi

Gli yama, le “discipline relazionali” descritte da Patanjali nel secondo libro dello Yoga Sutra rappresentano un insieme di valori che orientano i comportamenti sociali del praticante di yoga.
Oggi è più difficile metterli in pratica di ieri, perché le nostre azioni non derivano solo dalle nostre scelte individuali, ma sono condizionate dal sistema socioeconomico in cui siamo immersi.

 

Gli yama sono cinque e sono:

Ahimsa, non violenza, rispetto della vita, benevolenza verso se stessi e verso tutti gli esseri.
Satya, verità, sincerità, lealtà, autenticità.
Asteya, non rubare, onestà.
Brahmacharya, tensione verso l'Assoluto (pre-condizione e contemporaneamente conseguenza di un atteggiamento di moderazione e di equilibrio nel soddisfacimento dei bisogni naturali e materiali).
Aparigraha, mancanza di avidità, assenza di bramosia, non possessività, prendere o accettare solo ciò di cui si ha bisogno, generosità.

 

Cosa c'entrano gli yama con la t-shirt

Mettiamo che io vada al mercato e che io veda una bella T-shirt colorata. E mettiamo che la dimensione di brahmacharya mi sia estranea, cioè che nelle corde del mio essere e del mio fare manchi la capacità di moderare il mio appetito consumistico perché mi manca l'apertura ad una dimensione spirituale che mi fa sentire bene, “a casa”, nell'essere e non nell'avere.
Siccome sono in uno stato di squilibrio, sento una mancanza. E la maglietta colorata mi appare improvvisamente come un buon tamponamento, per quanto provvisorio, a quella mancanza.
La maglietta innesca la mia avidità; non ne ho bisogno, perché ne ho già altre dieci, ma sento la smania di averla.
Mentre la mia mente le si aggrappa con forza, tutto il resto sfuma momentaneamente in uno sfondo indistinto: ora in primo piano scintilla lei, la t-shirt colorata, nitida e accattivante. La bramosia svetta nel panorama dei miei bisogni e dei miei pensieri e s'impone su qualunque considerazione alternativa e contrapposta. Perdo la dimensione interiore chiamata aparigraha, (la non possessività) placida e pacificante qualità dell'essere, oggi quanto mai mortificata e calpestata dalle leggi del mercato.
In più costa solo 3 euro!

Ed ecco il punto, in queste condizioni bypasso un pensiero fondamentale: se la maglietta costa solo 3 euro, qualcuno è stato sfruttato. Costa così a spese di qualcuno.
Se io pago 3 euro, qualcuno ha pagato sotto qualche forma per me: la formula è praticamente matematica. I diritti umani (che comportano luoghi di lavoro salubri e sicuri, giusta retribuzione, forme adeguate di protezione sociale, tenore di vita che garantisca salute e benessere) hanno un costo, che non può essere contemplato nei 3 euro della t-shirt.
Anche se mi ritengo una persona pacifica, comprando quella maglietta non sono in ahimsa perché in qualche modo collaboro, con quella scelta, a compiere una violenza. Mi allineo con la logica del profitto e abbandono quella della giustizia, impoverendomi nella mancanza di considerazione per chi è altro da me.
Concorro a rubare a qualcuno (magari a un bambino) la sua salute e il suo benessere, i suoi diritti. Certo, rubo. Perché asteya non è soltanto non rubare l'ombrello dimenticato sul treno o la biro a disposizione allo sportello postale.
E nel comprare quella maglietta mi allontano da satya, dall'onestà di riconoscere la verità, di guardare alla realtà dell'interdipendenza tra la mie scelte e le condizioni di chi quella t-shirt l'ha tagliata e cucita in condizioni disagiate.

 

Yama, consapevolezza, resistenza

Però anche una maglietta che costa 30 euro può portare nel suo DNA lo sfruttamento e l'oppressione, senza che io lo sappia. Noi scegliamo e agiamo sempre meno in autonomia, perché il sistema sceglie sempre più per noi. E perché tutto è interconnesso.
Usando l'automobile per andare a lavorare inquino l'aria, ma non non solo: per fare un esempio, partecipo indirettamente al disastro ambientale provocato dalle compagnie petrolifere da una qualche parte del sud del mondo, alla sottrazione delle terre ai contadini, all'iniquità sociale, eccetera.
Non se ne esce. Viviamo nell'era del capitalismo e della globalizzazione e non possiamo che stare al gioco. Ma per quella fetta di autonomia di scelta che ancora ci è riservata, possiamo ancora sempre sostituire il consumo compulsivo col consumo consapevole. Possiamo ancora esercitare il nostro senso critico, creare resistenza e denunciare. E praticare gli yama consiste anche in questo. Possiamo agire dentro al margine di libertà individuale e di onestà che ci restano aldilà delle logiche del sistema. E ricordarci che sobrietà e gentilezza fanno ancora parte del corredo umano. Abbiamo ancora un margine d'azione per concorrere a porre le basi per un sistema economico e sociale migliore di quello attuale, basato su una rete di valori incentrati su una maggiore equità sociale e un maggiore rispetto per l'ambiente, dove i bisogni e i diritti delle persone siano rispettati di più e dove le risorse del pianeta siano considerate sempre più patrimonio comune di tutti gli esseri. Possiamo e dobbiamo farlo sia per chi sta peggio di noi sia per noi stessi, perché se è vero che ciò che facciamo per noi ha un riflesso sugli altri (vedi sopra), è anche vero il contrario. E il loro destino è innegabilmente anche il nostro.