Negli antichi testi dell’India conosciuti come Upanishad, il termine “viniyoga” viene utilizzato per esprimere concetti come “offerta” o “dono”. Nello stesso spirito, Patañjali ha ripreso questo termine e lo ha utilizzato nello Yoga-Sûtra per indicare un’applicazione dello yoga che fosse completa e specifica insieme e, in particolare, rispettosa dell’individuo.
Chiunque voglia fare un dono a un amico, per trovare qualcosa di adatto e gradito, pensa a lui, ai suoi gusti, a cosa gli piacerebbe, alle sue caratteristiche, ai suoi bisogni. Questo atteggiamento descrive lo spirito viniyoga. Per proporre una pratica utile ed efficace, un insegnante presta attenzione al suo allievo, lo ascolta, lo osserva e gli propone tecniche psicofisiche e/o orientamenti per la vita quotidiana “su misura”, personalizzati. È per questo che tradizionalmente l’insegnamento dello yoga veniva trasmesso individualmente.
Se viniyoga è qualcosa che l’insegnante di yoga offre e che l’allievo riceve, allora viniyoga è qualcosa che ha a che fare con la relazione. Non è una stile o una scuola particolare di yoga, ma semplicemente un modo d’insegnare e apprendere lo yoga all’interno di in una relazione fatta di ascolto, di attenzione, di comunicazione. Il fine? Offrire un insieme di pratiche, di spunti di riflessione e di stimoli all’azione volti al benessere e alla crescita delle persone, coerenti con le caratteristiche e le esigenze reali di ciascuno. “Viniyoga” non è nient’altro che “yoga”: una specifica visione dell’uomo e del suo cammino su questa terra, corredata da una serie di pratiche psicofisiche volte alla realizzazione dei potenziali umani. Perché, allora, non chiamarlo semplicemente “yoga”? Proprio per sottolineare l’importanza - nella trasmissione del sapere e delle tecniche dello yoga - di una pedagogia caratterizzata da un approccio graduale e rispettoso dell’unicità di ciascuno. Lo yoga non lo si apprende da un libro, da un video, o da soli.
Perché la personalizzazione dell’insegnamento dello yoga dovrebbe essere un valore aggiunto? Perché “ le stelle nel cielo sono tante, e sono tutte diverse”, diceva T. Krishnamacharya, il maestro del mio maestro. Chi è interessato a un’attività che lo mantenga in buona forma fisica, può non essere interessato alla dimensione spirituale dello yoga e viceversa. Una pratica utile a una donna al terzo mese di gravidanza può essere molto diversa da quella che serve a una donna in procinto di partorire. E due donne entrambe al terzo mese di gravidanza potrebbero necessitare di due pratiche decisamente diverse tra loro a seconda delle loro condizioni di salute. Un uomo che conduce una vita sedentaria e che soffre di mal di schiena ha bisogno di una pratica yoga diversa da quella che potrebbe servire a un ragazzino iperattivo. E la stessa persona può necessitare, in fasi diverse della sua esistenza, di nuove risorse offerte dallo yoga, in funzione dei bisogni e delle aspirazioni del momento.
Poiché nello yoga ogni teoria è strettamente connessa a una prassi, i presupposti teorici dell’adattamento e della gradualità comportano sistematicamente una ricaduta sull’applicazione delle tecniche psicofisiche: la diversità di persone e contesti non implica soltanto una riflessione attenta sull’uso dei mezzi di volta in volta più adeguati, ma scelte pratiche più “radicali” che, per quanto possano scandalizzare i puristi dello yoga, rappresentano pur sempre l’unico modo per assecondare realmente bisogni e capacità individuali.
Facciamo un esempio a proposito della pratica di âsana, cioè delle posizioni. È un luogo comune l’idea (infelice, dati i danni che una pratica inopportuna può generare sul piano fisico ) che una buona pratica di âsana consista nell’esecuzione perfetta delle posizioni così come sono state descritte nei testi antichi o come vengono presentate nelle illustrazioni dei manuali sullo yoga. Tipico condizionamento dei nostri tempi: si guarda alla forma e non alla sostanza. Va invece considerato che ogni âsana ha una sua funzione: serve a qualcosa. E la forma di ciascuna posizione, cioè per esempio una flessione indietro da supini o una torsione in piedi o ancora una flessione avanti da seduti serve a realizzare una funzione specifica, ad ottenere un risultato. La relazione tra forma e funzione va conosciuta. Nell’ottica viniyoga, la forma di ciascuna posizione, in quanto strumentale alla funzione, viene modificata, adattata alle caratteristiche e capacità individuali con l’obiettivo di realizzare appieno il tipo di effetto ricercato sul piano fisico ed energetico, evitando di creare danno. “Non è la persona che deve adattarsi allo yoga, è lo yoga che deve adattarsi alla persona”, diceva T. Krishnamacharya. Nell’ottica viniyoga, piegarsi in avanti per cercare di toccare le ginocchia con la fronte non ha alcun senso, perché la forma è sempre un mezzo e mai un fine.
Queste le parole del mio maestro, T.K.V. Desikachar: "Lo spirito viniyoga è partire da dove si è. Poiché ognuno è diverso e cambia nel tempo, non si possono ipotizzare dei punti di partenza comuni, e le risposte preconfezionate non servono a nulla. Occorre esaminare la situazione del momento e rimettere in discussione gli ordini abitualmente stabiliti".
Patañjali associa il termine “viniyoga” al termine “bhumi”, che in sanscrito significa “livello” “parametro”, “condizione”, “contesto” e dice, con questo, che occorre una pedagogia attenta e competente, rispettosa della domanda e delle capacità di ciascuno. Dice che occorre raggiungere gradualmente gli obiettivi stabiliti, prevedere tappe intermedie, utilizzare i mezzi più adeguati per realizzare ciascuna tappa e stimolare all’utilizzo intelligente delle capacità acquisite. Invita anche ad adottare una visione realistica che porti ciascuno di noi ad aspirare a ciò che di volta in volta è alla nostra portata.
“Bhumi” significa anche “terra”, “terreno”. Ogni allievo è un “terreno” che ha caratteristiche psicofisiche proprie, un terreno unico che il “seme” dello yoga (sia esso l’insegnamento delle posizioni o della meditazione o un qualunque stimolo che porti all’allievo qualcosa che lo faccia crescere e stare meglio) deve poter riconoscere. In natura, è sempre il seme ad adattarsi al terreno e, nel caso dello yoga, l’adattamento è frutto di una buona comunicazione nella relazione d’insegnamento e dell’abilità dell’insegnante di comprendere esigenze, condizioni e risorse del suo allievo, che cambiano nel tempo.